27.9.12

UOMINI A RIGHE

Dovunque guardassi, vedevo muoversi lentamente strane figure: centinaia, no, migliaia. Indossavano tutti  camicie e pantaloni logori, a righe, più simili a pigiami che ad abiti da lavoro. I loro volti erano terrei, le teste rozzamente rasate, appena coperte da minuscoli copricapi. Si aggiravano come ombre vaghe e indistinte, parevano destinati a dissolversi nel nulla da un momento all'altro. Non riuscivo a capire chi o che cosa, fossero. I miei compagni li chiamavano "uomini a righe"...
Riconobbi quei poveri sventurati come miei simili, malgrado fossero stati privati di quasi ogni traccia di umanità. Ciò che avevano subito lo portavano impresso addosso, insieme alla stella di David cucita sulla casacca. Erano ebrei...
Quando bisognava spostare qualcosa di pesante, assegnavano il compito a quei poveretti a righe, che si materializzavano neanche fossero sbucati dalle profondità della terra e sciamavano in massa intorno al tubo, alla valvola o al cavo per riuscire a sollevarlo. Ne servivano tanti perché erano debolissimi...
Ormai avevo capito che quello non era un normale campo di lavoro. I prigionieri venivano deliberatamente ammazzati di fatica. Era l'inferno in terra...

Ma un sopravvissuto ha detto, come messaggio da trasmettere alle generazioni future:

"Perché il male trionfi, basta che i giusti non facciano niente... 
Mai cedere alla rassegnazione. 
Devi combattere per ciò in cui credi, senza subire passivamente 
e senza aspettarti che altri lottino al tuo posto. 
Devi puntare con decisione verso il tuo obiettivo, prendere posizione, 
e combattere con tutte le tue forze."


Denis Avey, Auschwitz. Ero il numero 220543
Newton Compton, Roma 2011, pp. 138,139,324,325