
Una figura eroica, a cui tutto il lager guardava con ammirazione e rispetto, era il pastore evangelico Paul Schneider dell’Hunsrück. Il 1° maggio del 1938, per la prima volta alla presenza dei prigionieri schierati, venne issata in cima alla torre che sormontava il portone d’ingresso del lager la bandiera con la croce uncinata. I prigionieri erano allineati in lunghe file. Regnava un silenzio assoluto, in cui risuonò l’ordine: “Giù il berretto!”. Il posto di Paul Schneider era tra le prime file del suo blok, molto vicino al portone, proprio davanti al picchetto della direzione del lager. Sul suo viso dai lineamenti marcati si dipinse una ferma, risoluta energia. Non poteva conciliare con la propria coscienza il fatto di salutare un simbolo che era, nella sua essenza più profonda e fin nelle sue estreme emanazioni, qualcosa di non cristiano. Così il pastore Schneider, unico, restò lì, risoluto, a capo coperto, davanti alla bandiera issata...
Venne trascinato nel bunker, le famigerate carceri del lager, che non avrebbe più lasciato. Per tredici mesi patì i tormenti di quel sadico “trattamento speciale”. I prigionieri che per breve tempo condivisero con lui la cella, rimasero scossi dalla grandezza d’animo di quell’uomo coraggioso. Malgrado le razioni da fame, che a mala pena bastavano a garantire la sopravvivenza, egli, di venerdì, giorno della morte del Signore, si rifiutava assolutamente di prendere cibo.
Davanti all’edificio a un solo piano del bunker si estendeva lo sterminato piazzale dell’appello, in cui i prigionieri dovevano schierarsi ogni giorno, mattina e sera, per venir contati, e il più delle volte sottoposti a ogni sorta di angherie e vessazioni. Nei giorni di festa, nel silenzio della conta, tutt’a un tratto, proveniente dalle tetre inferriate del bunker, risuonava la voce potente del pastore Schneider. Teneva la sua predica come un profeta o meglio: cercava di cominciarla... Le lunghe file dei prigionieri stavano sull’attenti, profondamente turbate dal coraggio e dall’energia di quella volontà indomita...
Non poté mai pronunciare più che poche frasi. Poi sentivamo abbattersi su di lui i colpi di bastone delle guardie del bunker, o i pugni che gettavano quel suo corpo martoriato in un angolo del bunker. Neppure la violenza bruta aveva ragione della sua volontà e della sua resistenza inflessibile. Più d’una volta gettò in faccia al temutissimo lagerkommandant la terribile accusa: “Lei è un assassino che sta perpetrando un genocidio! Io l’accuso davanti al tribunale di Dio! Io l’accuso dell’assassinio di questi prigionieri!”. E poi egli enumerava i nomi delle vittime che erano state uccise nelle ultime settimane.
Siccome non riuscivano ad avere ragione della granitica solidità delle sue convinzioni, cominciarono a farlo figurare per pazzo, e lo riducevano al silenzio a forza di botte. Per più di un anno sopportò i supplizi del bunker, sino a che anche la sua forza soccombette alla violenza bruta. Sul suo corpo non c’era più un punto sano, quando lo portarono fuori dal bunker, morto. La notizia della sua morte suscitò in tutto il lager profonda commozione.
Margarete Dieterich Schneider, Il predicatore di Buchenwald
Claudiana, Torino 1996, pp. 198-200
Foto by Pietro