
Una parte di loro si rifiuta di stare nella stessa stanza con i "nemici", i governativi. Si odiano, si sono sparati addosso fino al giorno prima.
Ma non possiamo, né vogliamo, tenerli separati.
Così resto in ospedale fino a tarda sera, a parlare con questo e con quello, a spiegare che lì dentro non ci può essere né guerra né politica, che nessuno chiede loro di dimostrare amicizia, ma solo rispetto per gli altri feriti.
Non ottengo granché, mi ascoltano senza interesse, senza commenti.
La notte trascorre senza incidenti, ma il mattino dopo la tensione è ancora alta. Ricoveriamo altri feriti, soldati, ribelli e civili che si sono trovati nel mezzo.
Arriva anche Ali, e arriva anche uno dei capi della guerriglia, Merito. Ha entrambe le gambe spezzate da una raffica di mitra, dobbiamo operarlo subito.
Ali è tra i più intransigenti. E' paralizzato nel letto e sbraita che vuole andarsene, che non può stare a un metro di distanza da chi, forse, gli ha sparato alle spalle. Mi siedo tra i due.
"Io non so niente di questa guerra, non è il mio paese né la mia cultura. Ma credo che voi due abbiate pagato abbastanza, l'uno paralizzato, l'altro senza una gamba. Non ci può più essere guerra tra voi, non è più possibile, neanche fisicamente. Avete buoni motivi, tutti e due, per odiare la guerra. Non vi pare sia la guerra il vero nemico?"
Credo di aver usato esattamente queste parole. So di certo che ho dovuto ripetere lo stesso concetto in varie forme, per quasi un'ora.
Il soldato si accende una sigaretta, non dico nulla, anche se non si dovrebbe fumare nei letti d'ospedale.
Siamo in tre, e sono l'unico che parla, anche se di sicuro sono quello che ha meno da dire.
Passa un altro giorno, e dobbiamo ancora negoziare. Perché non dividere i feriti, perché non metterli in stanze separate?
Marc ne sembra convinto adesso, vorrebbe evitare guai in ospedale, anche la Croce Rossa verrebbe criticata. Ma io insisto, sono sicuro che otterremmo solo di inasprire i problemi, di aumentare le divisioni. E continuo nel tentativo di trovare una forma di convivenza.
Ali ha una carrozzina nuova, e sta imparando a usarla. E' ormai lì da tre giorni. Rientra nella sua stanza, per essere aiutato a mettersi a letto per la visita del mattino.
Nel letto accanto, con mia sorpresa, il "nemico" allunga la mano per spostare le stampelle e lasciare spazio alla carrozzina.
Forse ci siamo. Forse il tempo scorre lento in quel piccolo afoso ospedale, e invita a pensare, a guardarsi intorno e magari dentro.
Ci saranno giorni di piccoli gesti, di ostilità che si affievoliscono, di proclami di guerra che diventano semplici disaccordi. Ma continuiamo a parlare, e i feriti-nemici almeno ascoltano, osservano, a volte si guardano.
Il soldato cerca un'altra sigaretta, girandosi verso il comodino. E incontra lo sguardo di Ali.
Meccanicamente, senza pensarci come si fa nelle camerate, tra commilitoni, tende il braccio verso Ali come a dire "vuoi fumare?" Ali accetta con un gesto nervoso, quasi gli strappa la sigaretta dal pacchetto.
Per me è un gran segno, sento gli occhi inumidirsi. Ci vorranno ancora molti giorni, poi diventerà un rito.
Ogni tardo pomeriggio, all'ombra, sul retro dell'ospedale, si ritroveranno in dieci o quindici, a fumare insieme, e finalmente a parlare. Fino a un mese prima si erano affrontati a colpi di mitra.
Gino Strada, Pappagalli verdi
Feltrinelli, Milano 1999, pp. 132-134
Foto by The Kosovar